mercoledì 14 maggio 2008

Alemanno e la prima intervista ad un giornale straniero: il Sunday Times


Dal sito di informazione giornalistica www.corriereromano.it pubblichiamo di seguito un interessante articolo sulla prima intervista rilasciata dal sindaco Alemanno al periodico inglese Sunday Times.

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Il fascismo un bisogno, parola del 'nuovo duce'

di Simone Chiaramonte

Il Sunday Times ricomincia da dove aveva lasciato. Questa volta però si avvale del tanto declamato contraddittorio e fa il suo ingresso nella tana del lupo. Nella prima intervista ad un giornale straniero, Gianni Alemanno risponde infatti al domenicale inglese nel suo ufficio personale che si affaccia sul Foro. Il nuovo sindaco di Roma "fatica a negare di essere un fascista, un ex fascista o un post-fascista", e precisa: "La sinistra mi descrive come uno spauracchio, uno sporco camicia nera ma queste accuse non sono altro che menzogne".
Si affronta quindi il tema più spinoso: "La gente che mi chiama 'Duce' mi fa ridere. Io non sono per nulla fascista e penso che oggi questa parola appartenga ai libri di storia". Ad inneggiare al duce sotto al Campidoglio al momento della vittoria tuttavia, ricorda il settimanale, sono stati proprio i sostenitori del sindaco neo-eletto, che riguardo ai suoi convincimenti aggiunge: "Ho imparato ad odiare tutte le forme di totalitarismo, sia che siano di destra che di sinistra. Non mi sono mai sentito un fascista anche se negli anni '70 ed '80 noi ragazzi di destra credevamo che questo movimento fosse sostanzialmente positivo".
Quando però gli viene chiesto se il regime avesse avuto degli aspetti positivi, Alemanno risponde: "Ciò che è storicamente apprezzabile è il processo di modernizzazione, ad esso va imputato la realizzazione di importanti infrastrutture". Alemanno, dice il Sunday Times, ritiene Mussolini uno stimabile architetto, che "attraverso la realizzazione dell'Eur, avrebbe dato importanza all'identità culturale italiana".
Il nuovo sindaco di Roma, ricorda il giornale inglese, fa parte della coalizione di Silvio Berlusconi, "leader di uno dei governi più conservatori dalla seconda guerra mondiale, di cui fa parte anche la showgirl Mara Carfagna, ministra delle Pari opportunità".

Il giornalista britannico, senza alcuna remora, passa poi ad elencare i fatti che hanno portato Alemanno per tre volte in prigione negli anni '80, per cui è stato sempre assolto. L'ex militante del Fronte della Gioventù non ci sta a riconoscere i suoi errori, definendo gli incidenti che lo hanno coinvolto marginali, spiegabili a suo parere per il fatto di aver vissuto nel mezzo di una vera e propria guerra civile. A questo proposito fa vedere una cicatrice sul labbro superiore: "Un ragazzo mi ha tirato un pugno e mi ha spaccato il labbro. Ma eventi ben più seri di questo sono state le morti di molti miei amici attivisti, uccisi dagli estremisti di sinistra".


L'intervista non può poi non toccare il cavallo di battaglia della campagna elettorale del candidato vincitore: "Se nel sud Italia il problema è la mafia, a Roma è l'immigrazione. C'è un vasto numero di disperati che sopravvive in maniera furbesca". L'obiettivo del sindaco è espellerne 20.000.Alla fine dell'incontro, Alemanno fa un' ultima considerazione nel tentativo di liberarsi dall'etichetta che per anni gli è rimasta attaccata:" Sarebbe impossibile per un fascista essere eletto sindaco di Roma. La capitale italiana è una città che ha solide basi democratiche e che rispetta il prossimo. I romani non sono cattivi e neppure io lo sono".


2 commenti:

Anonimo ha detto...

Rivalutazioni striscianti da bloccare subito»
Data di pubblicazione: 12.05.2008

Autore: Guerzoni, Monica

Nell’intervista a Luciano Canfora il commento alle affermazioni sul fascismo “modernizzatore”. Dal Corriere della Sera, 12 maggio 2008 (m.p.g.)

Avrà pure prosciugato le paludi e realizzato il quartiere del-l'Eur, ma non si può affermare che il fascismo abbia modernizzato l'Italia. E bisogna andarci cauti con le «rivalutazioni striscianti» avverte Luciano Canfora — storico e saggista — perché se si legge la storia restando alla superficie si rischia, via via, di «mettere in pericolo l'architrave della Repubblica».
Il Ventennio «fondamentale» per la modernizzazione. Concorda con Alemanno, professore?
«Posso fare una premessa?».
Prego.
«L'autoproclamazione del sindaco, che dice di non essere fascista, vale fino a un certo punto. Può darsi anche che si sia pentito, ma una persona adulta non cambia repentinamente i propri convincimenti profondi. Rispettiamo l'autoconversione, però conserviamo un punto interrogativo sulla sua profondità».
Alemanno superficiale?
«La conferma della superficialità è proprio nella sostanziale rivalutazione del bilancio positivo del fascismo. Ricordo che nei primi anni '90 Berlusconi e Fini tracciarono un bilancio positivo del fascismo fino alle leggi razziali del '38. È una frase buffa, perché il fascismo sin dal '19 proclamò di essere razzista. Un dato che non può essere camuffato».
Però Alemanno parla solo della modernizzazione. Secondo lei non ci fu?
«Il sindaco riecheggia notizie prese di qua e di là. Gli storici dicono che negli anni '30 l'intera Europa vide un processo di modernizzazione, connessa al grande sviluppo industriale e al capitalismo maturo. Si sarebbe prodotto comunque, indipendentemente dal regime politico».
Mussolini prosciugò le paludi, fece edificare l'Eur e realizzare le infrastrutture.
«Anche Cesare aveva pensato modifiche di quel tipo. Fa parte dell'esercizio del potere dare corpo a un piano di lavori pubblici in un'epoca di relativa pace, ma non può essere il biglietto da visita di un regime. C'è un campo in cui è doverosa l'osservazione critica e cioè i fortissimi passi indietro dal punto di vista del principio di rappresentanza. L'Italia fascista fu imbrigliata nel corporativismo e le donne ottennero il diritto di voto solo dopo la Liberazione».
Non avrà paura che si torni ai figli della lupa, al sabato fascista, al salto nei cerchi di fuoco...
«In quegli aspetti c'è una forma supplementare di equivoco. Nessuno è contrario all'educazione completa, anche fisica. Ma nel caso del fascismo, con cose tipo libro e moschetto, si fece un uso distorto del culto del corpo e della violenza».
Nulla da rivalutare, dunque?
«Questo tipo di rivalutazione strisciante è nell'aria e bisogna stare attenti ai manuali per le scuole, dove prima o poi qualcuno comincerà a infilare questi concetti. Noi abbiamo una Costituzione scritta che discende direttamente dalla Resistenza e dalla lotta di liberazione, attenti a non mettere in pericolo l'architrave della nostra Repubblica».

Tratto da Eddyburgh

Anonimo ha detto...

L’eterno ritorno dei cattivi maestri
Autore: Prosperi, Adriano
Data di pubblicazione: 01.10.2008 17:15


Che cosa fu veramente il fascismo in Italia; oggi più che mai occorre ricordare, e raccontare a chi non c’era. La Repubblica, 1 ottobre 2008

All’appuntamento col settimo decennale delle leggi razziali - ma sarebbe meglio chiamarle col loro vero nome, leggi razziste - l’Italia, il suo governo, la sua scuola, ma anche larga parte della sua popolazione si presentano più distratti del solito, il che non è poco. Sono gli eredi politici del regime fascista, oggi al governo in Italia, che ne parlano. Lo fanno ricorrendo a un linguaggio di sapore religioso: si chiedono, col sindaco di Roma Alemanno, se quelle leggi furono il male assoluto. Il veleno dell’argomento è scoperto, ingenuo.

«Assoluto» è una parola che appartiene al linguaggio apocalittico dell’ideologia nazista. Così quelle leggi vanno sul conto del razzismo nazista e il regime fascista è assolto da ogni colpa. La tendenza italica all’autoassoluzione è antica e ben nota. Ma è necessario fare i conti con le leggi razziste che operarono nell’Italia di Mussolini dal 1938 al 1945. In questo settantesimo anniversario spinge a ricordarle non la minaccia di un ritorno dell’antisemitismo e nemmeno quel razzismo volgare che oggi in Italia è prodotto e alimentato dalla paura dello straniero, dell’immigrato: si tratta piuttosto di capire che cosa significarono allora quelle leggi nel mondo della scuola e nella cultura religiosa italiana. La ragione è semplice: le memorie di quegli anni parlano di una assenza di reazioni proprio nei luoghi che dovevano esserne più direttamente colpiti e più capaci di reazione - quelli della scuola e quelli della Chiesa. Oggi è sul fronte della scuola e su quello della integrazione fra culture e religioni diverse che il disagio della società italiana è più forte. E la mancata elaborazione di quel passato ne è insieme sintomo e causa.

Lo stato della memoria della cosiddetta società civile è quello che è. «Priebke? Boh!»: così hanno reagito qualche giorno fa le candidate a un premio di bellezza in quel di Frosinone, a poca distanza dalle Fosse Ardeatine, dove qualcuno ha avuto l’idea di invitare come testimonial quella cariatide di assassino nazista. Idea in sé non nuova - lo sanno bene i «mostri» della cronaca nera - se non fosse che i criminali di guerra sono vecchi e soprattutto ignoti ai più. Altro che memoria divisa. Il fiume di un’opinione pubblica politicamente indifferente e infastidita dalle dispute ideologiche li ha cancellati.

La stagione della post-politica perfeziona così la mancata resa dei conti col proprio passato con cui l’Italia ufficiale chiuse tra parentesi il fascismo. E ritorna in auge l’immagine negativa della politica e dei politici di mestiere, simile in apparenza soltanto a quella instillata dalla propaganda del ventennio fascista. Allora nella deliberata ignoranza e rifiuto della politica le menti più lucide videro il prodotto e la radice stessa del fascismo italiano. Lo testimoniano i bellissimi Diari di un partigiano ebreo di Emanuele Artom (editi da Guri Schwarz per Bollati Boringhieri). Emanuele Artom fu fatto prigioniero e ucciso dopo atroci torture dai militi della RSI - quelli per i quali si osa oggi chiedere parità di onore pubblico con le loro vittime. Il suo è uno dei nomi che quelle leggi cancellarono dal mondo degli studi e della scuola. Accanto al suo ci sarebbero tanti altri nomi da ricordare. Ma il fatto su cui si deve tornare a riflettere è l’importanza della scuola per l’attuazione delle leggi del 1938. Qui il regime fascista fu più rapido e più duro di quel nazismo di cui lo si vorrebbe un passivo imitatore in materia di razzismo, un succubo, un ingenuo scolaro traviato da cattivi compagni. L’espulsione degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche reca la data del 5 settembre 1938 col Regio decreto n. 1390: «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola». Come ha fatto presente Michele Sarfatti, a Berlino la stessa misura fu presa solo due mesi e mezzo più tardi. Ne fu attore primario Giuseppe Bottai ministro di quella che si chiamava allora l’Educazione Nazionale. Fu lui a far sì che le scuole si riaprissero cancellando studenti e professori ebrei e libri di testo di autori ebrei. Spirito religioso, quel Bottai: il carteggio che intrecciò con don Giuseppe De Luca ha accenti di grande devozione. Sotto di lui la struttura burocratica e la catena di comando della scuola dettero prova di una durezza e di un’efficienza insolite.

Quando le scuole si riaprirono, gli studenti definiti ebrei da quelle leggi erano scomparsi e così pure i professori. Dov’erano finiti? E soprattutto: qualcuno se lo chiese? Oggi le carte di polizia ci permettono di ricostruire i percorsi degli scomparsi. E anche in questo caso l’efficienza dimostrata allora da un paese noto per la sua sciatteria istituzionale desta stupore.

Le spie che si incollarono al professor Paul Oskar Kristeller ne annotarono ogni passo. Elenchi di nomi e cognomi ebraici preparati da tempo permisero di seguire i movimenti delle persone. Quando venne il momento della deportazione nei lager, si fu in grado di rintracciare e chiudere nelle carceri fiorentine di Santa Verdiana la professoressa Enrica Calabresi, studiosa di scienze naturali cacciata dall’università in esecuzione del decreto del 5 settembre 1938: e solo la fiala di solfuro di zinco che la professoressa portava con sé le offrì una via d’uscita prima di salire sul treno per Auschwitz.

Con la scuola va insieme la religione: il linguaggio del razzismo fascista, profondamente diverso da quello nazista, esaltava la superiore spiritualità della «razza italiana». Era un’ambigua mistura di fumisterie idealistiche e di termini religiosi. Quanto contribuì quel linguaggio a oscurare la coscienza della realtà delle cose? Che cosa era la religione che si insegnava nelle scuole italiane dopo il Concordato del ?29? Qui non si tratta solo di misurare la timidezza e l’unilateralità delle reazioni ufficiali delle autorità centrali della Chiesa cattolica, che si preoccupò solo per la legislazione sui matrimoni misti e bloccò la protesta preparata dal defunto papa Pio XI. Si tratta di capire quanto pesasse allora nella cultura scolastica e nella vita sociale l’antica, plurisecolare tradizione di diffamazione degli ebrei e dell’ebraismo portata avanti dal magistero della Chiesa e diffusa dall’alto attraverso i veicoli della capillare presenza ecclesiastica in Italia. Bisogna tornare a scavare in questo passato italiano. Bisogna che quel che se ne sa diventi patrimonio comune.

E per questo è necessario ma non sufficiente che sia chiusa per sempre la porta ai tentativi di rilegittimare il fascismo. Bisogna che la scuola pubblica sia attrezzata come si deve nei confronti dell’intolleranza e dell’ignoranza religiosa e culturale. Oggi il linguaggio senza tempo delle pretese vaticane rivendica nuovi privilegi per le scuole cattoliche. Eppure la scuola pubblica ospita un insegnamento della religione pagato dallo Stato e gestito dai vescovi che di fatto cancella la parità dei diritti costituzionali e tende a vaccinare i giovani contro ogni pluralismo culturale e religioso.

Il fatto che oggi in Italia non siano gli ebrei a essere minacciati più direttamente dall’intolleranza niente toglie all’urgenza del problema. Il passato può insegnare qualcosa. E la scuola pubblica merita che vi si investano tutti i pensieri di un paese che vuole avere un futuro. «Se si pensa a com’è disarmata la giovinezza, - diceva Cesare Garboli

tratto da Eddyburgh